Alberto Piastrellini

“La Scienza in Cucina”: da 128 anni must indiscusso per la buona tavola

Gastronomia, cultura locale e curiosità nel libro-culto di Pellegrino Artusi di Alberto Piastrellini Chi tra le Lettrici e i Lettori ha avuto la fortuna di avere una nonna e una mamma appassionate di buona cucina, avrà notato, nelle rispettive raccolte di libri tematici e fra i mille ritagli di ricette rubate negli anni da riviste e rotocalchi un volume malridotto, vecchio, magari anche spaginato e tenuto insieme con lo spago, come un pacchetto… Un cimelio di un passato lontano da avvicinare con la riverenza del questuante di fronte all’oracolo. Quel libro, che magari è passato di mano attraverso diverse generazioni femminili all’interno della stessa famiglia ha rappresentato per oltre un secolo – e v’hanno taluni che lo stimano massimamente anche oggi – il non plus ultra della gastronomia italiana, è: “La Scienza in cucina e l’Arte di mangiar bene – manuale pratico per le famiglie” di Pellegrino Artusi. Un’opera che ha visto la luce nell’Italia da poco unificata, nel 1891 e che, per la sua freschezza di contenuti testuali e ricchezza di suggerimenti, consigli e ricette pratiche, ha passato indenne 128 anni di storia nazionale sorvolando leggera e golosa le varie evoluzioni che hanno interessato le abitudini alimentari degli italiani e non solo. Pellegrino Artusi Nato nel 1820 a Forlimpopoli (provincia di Forlì), in quello che allora era territorio dello Stato Pontificio, da una famiglia benestante attiva nel commercio, si avvicinò agli studi letterari a Bologna per poi inserirsi tranquillamente nell’attività familiare sino al 1851, quando l’assalto alla casa paterna da parte del Brigante detto il Passatore (al secolo Stefano Pelloni), costrinse la famiglia ad una fuga verso il Granducato di Toscana (l’episodio vide lo stupro di alcune donne della casa, fra le quali una sorella di Pellegrino che impazzì per lo shock). Stabiliti a Firenze, gli Artusi, proseguirono nel

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Acquario: la meraviglia del mondo subacqueo in casa

Un angolo di natura da approcciare con competenza e preparazione nel rispetto degli animali e delle piante ospiti Di Alberto Piastrellini Nella ricerca, spesso dettata da ridicole mode che a distanza di tempo spingono verso questa o quella razza di cane o di gatto nella scelta per il proprio animale domestico che, in molti casi, purtroppo, sfocia in una manifestazione di status symbol piuttosto che nella semplice esigenza di affezione e compagnia, da qualche decennio, complice la riduzione dei costi di acquisto, si è sempre più affermato il piacere verso l’acquario e l’acquariologia. L’acquario, tanto quello marino (molto impegnativo), quanto quello di acqua dolce (mediamente impegnativo e comunque più abbordabile per i neofiti), ha l’indiscutibile appeal di portare in casa non solo qualche animale da osservare (l’interazione, in questi casi è oggettivamente limitata), ma, nella sua forma più corretta, tutto un piccolo ambiente naturale funzionale al benessere dell’animale stesso e delle diverse specie coinvolte. Acquariofili appassionati e studiosi dilettanti, si divertono, in questo senso, a ricreare nel piccolo habitat specifici che ricalcano le caratteristiche di singoli laghi o fiumi con tutta la relativa ricchezza delle specie coinvolte. L’acquario consente, quindi, un’osservazione privilegiata di fenomeni naturali e dei comportamenti animali normalmente “nascosti” alla vista dei più se si esclude la pratica della subacquea ricreativa e della ricerca specifica. Ma non solo, osservare un acquario è sempre un’esperienza stimolante e allo stesso tempo rilassante: forme e colori di pesci ed invertebrati stuzzicano la fantasia e la curiosità mentre il movimento degli animali nell’acqua induce un senso quasi ipnotico di pace e di relax. Non a caso, già da tempo studi di medici, dentisti, psicologi e psicoterapeuti, ospitano acquari nelle sale d’attesa ove i pazienti possono decomprimere le loro ansie. Il senso della vista, poi, non è l’unico ad esserne stimolato perché, anche

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Latte d’asina, tesoro di natura per il benessere e la bellezza

Usato nei secoli da regine e imperatrici non è solo un ingrediente di cosmetici al top, ma anche un alimento sano da conoscere e riscoprire. Di Alberto Piastrellini Si narra che la bellissima Poppea Sabina, seconda moglie dell’imperatore Nerone, usasse concedersi bagni di bellezza immergendosi nel latte di centinaia d’asine allevate appositamente allo scopo e che altrettanto facesse l’avvenente Cleopatra. In tempi più recenti anche Paolina Bonaparte, Josephine de Beauharnais e l’imperatrice d’Austria più nota come Sissi hanno usufruito di questo latte “miracoloso” per donare morbidezza e giovinezza alla loro augusta pelle. Ma sarà vero? Scopriamo insieme quali sono le caratteristiche del latte d’asina che a partire da Ippocrate e passando dalla narrazione di Plinio il Vecchio, ha attraversato orgogliosamente indenne tutta la storia della medicina e della cosmesi occidentale per essere “riscoperto” oggi come ingrediente d’elezione per prodotti legati alla salute e alla bellezza. Durante il viaggio, poi, andremo anche a conoscere una giovane veterinaria che ha trasformato la sua grande passione per questi animali in una vera e propria attività di impresa fondando una azienda agricola, tutta al femminile, che, a partire dall’allevamento di 40 asini produce e vende latte d’asina e prodotti cosmetici derivati. Il tutto nel pieno rispetto del benessere degli animali, allevati allo stato semibrado sulle splendide colline marchigiane di Colmurano (MC) a due passi dal Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Il latte d’asina: caratteristicheSimile, per composizione, al latte materno della specie umana, il latte di Equus asinus si distingue dal latte vaccino per il basso tenore lipidico (quindi minor materia grassa) ed un elevato tasso di lattosio. Estremamente digeribile, le sue caratteristiche chimiche lo rendono poi alimento elettivo per quei bambini che dimostrano allergie ed intolleranze alimentari nei confronti delle proteine contenute nel latte vaccino nonché un valido sostituto per quelli che non possono

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Bomarzo: il Sacro Bosco nato per amore di una donna

Inganno dell’Arte e Arte dell’inganno nel celebre Parco dei mostri che celebra la cultura umanistica del ‘500, la voglia di stupire e il ricordo di una donna amata. Di Alberto Piastrellini Presso l’antico Borgo di Bomarzo, in provincia di Viterbo, sorge, all’ombra dei lecci e degli allori che caratterizzano il fondovalle un parco inquietante e misterioso, denso di suggestioni mitologiche e letterarie: è il Parco dei mostri o Bosco Sacro di Bomarzo. Ideazione fantastica di metà ‘500 in bilico fra l’essere una “villa delle meraviglie” e un percorso iniziatico (che sembra anticipare di tre secoli le suggestioni del romanticismo; non a caso parte del Parco celebra un amore tragicamente interrotto) il Parco dei mostri di Bomarzo è nato dalla fantasia di un nobile committente e dalla creatività  di un bizzarro architetto-sculture dell’epoca, Pirro Ligorio (autore, tra l’altro di altri capricci come Villa d’Este a Tivoli e di alcune fontane di Villa Lante a Bagnaia). Una bizzarria di pietra e di verde che ha ispirato artisti contemporanei come i pittori Salvator Dalì e Carel Willink, la scrittrice olandese Hella Haasse e il musicista argentino Alberto Ginastera, salvata dall’incuria grazie alla lungimiranza di un privato che acquistò l’area nel 1954 per restituirla alla fruizione comune. Un’opera unica al mondo per eclettismo ed inventiva che associa le suggestioni verdi di una natura quasi selvaggia a quelle artificiali ed artificiose di sculture inquietanti e mostruose per soggetto e dimensioni. Il tutto coreografato da una regia sapiente e discreta che ha voluto mantenere intatta l’unicità del luogo prevedendo interventi minimi di impatto sull’ambiente circostante e la trasformazione della materia-pietra laddove questa emergeva spontaneamente dal terreno. I mostri di BomarzoQui la bocca mostruosa di un’Orca sbuca famelica dal terreno; là il divino Proteo minaccia il viaggiatore con le sue fauci, altrove Ercole squarta Caco con le

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Settimana dei Musei: dal 5 al 10 marzo si entra gratis nei musei e siti statali d’Italia

L’iniziativa del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali aumenta i giorni di accesso gratuito e introduce con #iovadoalmuseo riduzioni significative per l’ingresso di giovani dai 18 ai 25 anni. Di Alberto Piastrellini Inaugurata ieri, a Roma, nel corso di una visita del Ministro della Cultura Alberto Bonisoli a Palazzo Altemps la Settimana dei Musei 2019 che prevede, dal 5 al 10 marzo l’accesso gratuito ai Musei e siti statali. La Settimana dei Musei è istituita dal Ministero dei Beni e delle Attività Culturali nell’ambito delle azioni nell’iniziativa: #iovadoalmuseo volta a promuovere la cultura della bellezza e dell’arte in una nazione che vanta strutture di rilevanza mondiale per la ricchezza delle opere ivi esposte, nonché un tessuto unico al mondo di micromusei diffusi capillarmente sul territorio. Con l’introduzione della Settima dei Musei le giornate di accesso gratuito passano da 12 a 20! Nella fattispecie restano gratuiti gli accessi le prime domeniche di ogni mese, ma solo da ottobre a marzo e viene introdotta una settimana di accessi gratuiti che varierà di anno in anno (quest’anno cade appunto nei giorni dal 5 al 10 marzo). Un’altra grande novità introdotta dal dicastero della Cultura è il biglietto ridotto per i giovani dai 18 ai 25 anni che, nei giorni di apertura a pagamento, possono entrare al prezzo di 2 euro. Inoltre, per migliorare l’offerta e aumentare la fruibilità dei luoghi della cultura del Mibac, 8 giornate gratuite sono autonomamente gestite dai Direttori dei singoli siti o musei.L’idea sottesa alla creazione della settimana dei musei nasce dalle considerazioni dei tanti addetti ai lavori che, negli anni passati, avevano salutato con favore le affluenze record nelle domeniche gratuite, ma, al contempo, avevano rimarcato come le eccezionali presenze di visitatori avessero creato non pochi problemi alla gestione dei siti coinvolti, alla salvaguardia delle opere esposte

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Villa Lante, racconto magico di acqua e di verde

Fra i più bei giardini italiani del ‘500, Villa Lante stupisce il visitatore con meravigliose fontane che costituiscono un interessante “racconto” allegorico del rapporto Uomo-Natura. Di Alberto Piastrellini Un’idea per una gita domenicale alla scoperta della bellezza nascosta nel nostro patrimonio storico architettonico, non disgiunto da suggestioni verdi è rappresentata dalla mèta di Villa Lante, divertente capriccio del ‘500 italiano a pochi Km da Viterbo nel piccolo centro di Bagnaia. La visita alla Villa e al suo magnifico parco-giardino che ricadono fra i luoghi di cultura del Ministero per il Beni e le Attività Culturali – Polo Museale del Lazio offre la possibilità di immergersi in un contesto dove Arte e Natura convivono da sempre in un rapporto privilegiato mediato dalla presenza significativa dell’acqua utilizzata per costruire una sorta di messaggio cifrato nascosto nella presenza delle innumerevoli fontane che costituiscono l’attrazione principale del giardino stesso. Un po’ di storiaOltre 22 ettari di parco concepiti in primo luogo nei primi anni del ‘500 quando il Cardinale Raffaele Riario volle creare una sua personale riserva di caccia: il “barco”, cintando con un’alta murata la sommità di un intero colle. I proprietari che si succedettero nell’arco di un secolo, ovvero i cardinali Niccolò Ridolfi, (1538 – 1550); Giovanni Francesco Gambara (1568 – 1587), Federico Cornaro (1587 – 1590); Alessandro Peretti Montalto (1590 – 1623) apportarono modifiche consone alle proprie diverse esigenze e personalità aggiungendovi vari ambienti adibiti ad abitazione, scuderie e casini di caccia seguendo i gusti e la moda del tempo in un gioco di sovrapposizioni di stili diversi. Il tutto sino al 1656 quando Villa e Giardino passarono in enfiteusi alla famiglia Lante della Rovere che ne mantenne la proprietà sino al 1933. Villa Lante: suggestioni verdiPasseggiare nel Parco fra le selve di querce secolari, platani, cedri ed ippocastani cullati dal

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Il genio grafico di Sara Pichelli dietro l’Oscar 2019 al Miglior Film d’Animazione

La trentaseienne disegnatrice di origini marchigiane collabora da tempo con la Marvel, colosso americano dei fumetti. Di Alberto Piastrellini Alla 91 edizione della cerimonia di consegna degli Academy Award, più noti come Premio Oscar, la bravura di una disegnatrice italiana contribuisce alla fortuna del film d’animazione Spider-Man: Un nuovo universo di Bob Persichetti, Peter Ramsey e Rodney Rothman che esce dalla competizione a testa alta fiero dell’Oscar come Miglior Film d’animazione avendo superato nel gradimento dei votanti: Gli Incredibili 2 di Brad Bird; L’isola dei cani di Wes Anderson; Mirai di Mamoru Hosoda e Ralph spacca Internet di Phil Johnston e Rich Moore. Un po’ della bravura e della creatività nazionale declinata al femminile entra quindi anche in questa edizione ove, purtroppo, è stata fin troppo evidente l’assenza del Cinema italiano che pure ha sfornato registi, costumisti, scenografi, sceneggiatori e musicisti indubbiamente da Oscar!Questa volta è toccato a Sara Pichelli, origini marchigiane (Porto Sant’Elpidio), classe 1983, fumettista e disegnatrice, nonché insegnante alla Scuola internazionale di Comics di Roma, dare il contributo italiano al film d’animazione statunitense avendo già ricoperto il ruolo di artista principale nella seconda serie di Ultimate Comics: Spider-Man, pubblicato dalla Marvel nel settembre 2011.L’animatrice ed illustratrice trentaseienne, peraltro, ha collaborato con il colosso USA dei fumetti sin dal 2008, allorquando è stata scoperta dalla Marvel Comics nel corso di una ricerca internazionale di talenti.Sara Pichelli, dopo gli studi nella Scuola internazionale che oggi la vede nei panni di insegnante, muove i primi passi nel mondo del cinema d’animazione come storyboarder e character designer; nel frattempo pubblica “La vie en rouge” nella raccolta a fumetti “Sesso col coltello” (edizioni Cut-Up), adattamento a fumetti dell’omonimo libro di Alda Teodorani.In seguito, ha lavorato come layout assistant per le serie a fumetti Star Trek e Ghost Whisperer con Elena Casagrande e

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Reiki: canale di energia vitale universale

Nato in Giappone come metodo di risveglio spirituale, crescita personale e sistema naturale di auto-guarigione, il Reiki oggi è praticato in tutto il mondo. Di Agnese Mengarelli Il Reiki è una tecnica giapponese che viene utilizzata per trasferire energia vitale universale, attraverso l’imposizione delle mani. Si tratta di quell’energia grazie alla quale ciascuno di noi può ristabilire l’armonia tra il proprio Io interiore e gli agenti esterni e può essere utilizzata per rilassarsi, ridurre lo stress e alleviare numerosi disturbi.Il fondatore del Reiki fu Mikao Usui (1865-1926), un monaco giapponese docente in una piccola Università di Kyoto, che sviluppò questa tecnica dopo 21 giorni di digiuno e meditazione sul Monte Kurama. La praticò con costanza e la insegnò ad oltre 2000 persone durante la sua vita. La parola giapponese Reiki sintetizza, efficacemente, l’azione specifica del sistema di guarigione, infatti, essa è composta da Rei, che significa energia universale, e Ki, che significa energia vitale.L’energia vitale è l’energia che permea e avvolge qualsiasi corpo, vivente e non, e attraverso la sua circolazione apporta, sostiene e garantisce la vita.L’energia universale è l’energia divina, l’energia dell’Uno, la fonte inesauribile del tutto, del visibile e dell’invisibile, del materiale e del non-materiale.La tecnica è ordinata in 3 livelli distinti a cui si accede attraverso l’iniziazione di un Maestro.L’operatore Reiki non è né un guaritore né un terapeuta, è solo un canale di energia capace di trasmettere un profondo rilassamento, che già di per sé porta al benessere e attiva i propri lati forti per facilitare l’autoguarigione. Il Reiki ha 5 principi molto forti, un insieme di regole di vita, tramandate a Mikao Usui dall’Imperatore Meiji, che esprimono l’importanza di impegnarsi nelle cose giorno per giorno, senza ansia o fretta, concentrandosi sulla realtà del momento e vivendola intensamente. “Almeno per oggi Non arrabbiarti,Non ti preoccupare,Sii gentile

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Bottle garden: lo stupore di un giardino sottovetro

Un giardino in bottiglia porta un angolo di Natura in casa, arreda con discrezione e dà la possibilità di osservare e comprendere la magia dei processi naturali. Di Alberto Piastrellini Da sempre godiamo nell’avere accanto, all’interno delle nostre case, elementi naturali vivi che ci avvicinano a quella dimensione naturale che, il progresso ci ha lentamente alienato.Se vasi, fioriere e cache pot allietano e rinfrescano gli interni e gli esterni delle abitazioni arrivando a costruire financo rigogliosi angoli verdi degni di una foresta tropicale in miniatura, se la tecnica bonsai ci consente la magica illusione di poter disporre di alberi centenari in soggiorno; se l’arte ikebana della disposizione di fiori recisi ed elementi vegetali ci apre la mente alla gioiosa contemplazione di effimere schegge di Natura, la presenza di un giardino in bottiglia stimola la fantasia e la curiosità dell’osservatore e, per l’appassionato di lavoretti green rappresenta una sfida di non poco conto. Il contrasto rappresentato dai toni bruni della torba e delle sabbie ed il verde tenero delle foglie minute vestite di goccioline di umidità evoca l’immagine di un meraviglioso altrove ideale e primordiale dove la natura regna incontrastata e selvaggia. Allo stesso tempo, la superfice brillante del vetro delimita il confine del microcosmo svelando la realtà di un ambiente educato dall’uomo ma, non per questo meno meraviglioso. Il giardino in bottiglia, parente povero del terrario costituisce un vivace elemento d’arredo in grado di sposarsi con un’ampia varietà di stili e di non sfigurare affatto con il design contemporaneo grazie alla diversa personalità dei contenitori utilizzati che vanno dalle classiche bottiglie panciute, ai grossi barattoli in vetro in un crescendo di forme e dimensioni che solo la fantasia e la disponibilità possono frenare. L’importante è considerare attentamente l’apertura di accesso al contenitore che dovrà essere abbastanza larga da consentire l’inserimento

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Candele: piccole luci per riscaldare il cuore

Intramontabili e raffinati oggetti d’arredo, le candele accompagnano da sempre le nostre esistenze. Di Alberto Piastrellini Quale magia quando nella penombra invernale di un interno una candela proietta la sua luce calda e quale atmosfera, analogamente, la stessa luce emana in un contesto del tutto diverso, come una tavola imbandita in giardino o in terrazza durante una sera estiva. E come non pensare alla notte di Natale senza le allegre fiammelle delle tea light disseminate qua e là in lanterne e bicchierini colorati… Persa la loro precipua funzione di fonte di luce prima della diffusione dell’energia elettrica, le candele, negli ultimi 20 anni sono divenute irrinunciabili oggetti d’arredo nonché accessori straordinari per i cultori del design di interni. Accoglienti, dalla luce morbidissima ed evocatrice di familiare intimità ma anche preziose compagne di allestimenti stupefacenti e barocchi, le candele impreziosiscono stili diversi portando un tocco di luce e calore come piccoli focolari in miniatura capaci di catalizzare lo sguardo dei presenti ed infondere, soprattutto nella brutta stagione, un senso di pace e di casalinga serenità. Irresistibili compagne di momenti da sottolineare con particolare enfasi, che siano convivi galanti o cerimonie liturgiche, le candele, con il loro consumarsi lentamente inducono alla riflessione e favoriscono la meditazione, non a caso, lumini e ceri votivi vengono utilizzati in molte religioni quale preziosa “offerta di luce”. Si consideri, poi che per diversi millenni, avere a disposizione luce “portatile” è stato un lusso che ha stuzzicato la fantasia e la creatività di artigiani ed artisti che si sono sbizzarriti nella produzione di candelieri, candelabri, lampadari – spesso in materiali preziosi – per soddisfare le esigenze di una ricca committenza vogliosa di esplicitare il proprio potere e la propria ricchezza sfidando le ore della notte contro un “popolo minuto” che necessariamente doveva ritirarsi al calare del sole.

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Giornata Internazionale della tolleranza zero nei confronti delle pratiche di mutilazione genitale femminile

La Commissione Ue celebra l’evento ricordando dati e iniziative di contrasto ad un problema ancora troppo sottaciuto e nascosto, purtroppo ben più diffuso di quanto si immagini. Di Alberto Piastrellini Oggi, 6 febbraio, si celebra la Giornata Internazionale della tolleranza zero nei confronti delle pratiche di mutilazione genitale femminile, istituita dall’Assemblea generale dell’ONU il 20 dicembre 2012, con l’obiettivo di promuovere campagne di sensibilizzazione e azioni concrete per combattere la pratica delle mutilazioni genitali femminili. Usanza raccapricciante e ancora troppo diffusa in alcuni Paesi del mondo, purtroppo eseguita, spesso in casa o comunque in strutture ove non è possibile garantire alcun controllo igienico o medico, anche in Occidente, ovviamente di nascosto. Le stime, proprio per questo molto indicative, indicano come nel mondo oltre 200 milioni di donne (500.000 nella sola Europa) siano state sottoposte a queste pratiche che nulla hanno a che vedere con la salute del corpo o con il benessere, rientrando nel nebuloso e tutto soggettivo territorio della tutela dell’onore e della tradizione. Al ritmo attuale, si teme che di qui al 2030, altri 68 milioni di giovani ragazze dovranno subire questo trauma nei Paesi ove tali azioni sono praticate abitualmente (e quindi più o meno censibili). Ricordiamo che sotto la denominazione di mutilazione genitale femminile rientrano tutta una serie di operazioni che vanno dall’escissione parziale a quella completa dei genitali femminili esterni; dalla rimozione parziale o totale del clitoride alla rimozione di piccole e grandi labbra, sino al restringimento dell’apertura vaginale con la sutura successiva alla rimozione delle parti esterne. Si possono ben immaginare le conseguenze invalidanti fisiche e psicologiche nel breve e nel lungo periodo per chi subisce tali operazioni senza contare i rischi derivanti dall’utilizzo di strumenti non chirurgici e dall’operato di persone non professioniste in campo medico-chirurgico. In occasione della Giornata Internazionale l’Alto rappresentante

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Al via oggi il 69° Festival di Sanremo

Al popolare Festival di canzone italiana, R&A Radio dedica 4 spazi giornalieri in diretta con ospiti ed interviste originali per scoprire curiosità, i dietro le quinte, i retroscena e le anticipazioni dell’evento più atteso dell’anno. Di Alberto Piastrellini È la competizione canora più attesa d’Italia, la passerella più ambita per cantautori ed interpreti di riconosciuta fama nonché trampolino di lancio per giovani e nuove proposte della scena musicale nazionale: naturalmente è il Festival di Sanremo! 69 anni appena compiuti ma sembra non temere i segni del tempo questa singolare tenzone a suon di note e gorgheggi nata quando ancora il mezzo più diffuso era la radio e il concetto di spettacolo era tutto nella mente e nella magia dei suoni e delle melodie e cresciuta di pari passo con l’evoluzione sociale ed economica del Paese sino a diventare, soprattutto in qualche edizione, solo un grande spettacolo di intrattenimento ad uso del servizio pubblico televisivo. In questo senso, negli anni si è assistito ad una moltiplicazione degli eventi che gravitano attorno a Sanremo, prima e dopo, in un’esplosione di contenuti di informazione, approfondimento e semplice gossip che troppo spesso hanno poco a che fare con la musica in sé, ma ne costruiscono una sorta di mito ad uso e consumo del mercato. Quel mercato che, proprio a causa della facilità di scaricare musica quasi gratis sui vari device, ormai vere e proprie estensioni di ognuno di noi, sta soffrendo, negli ultimi anni, di una vera e propria rivoluzione in cui la musica, le canzoni, sono diventate semplici merci di consumo dalla vita brevissima. In questo senso ci sembra interessante la volontà della direzione artistica dell’inossidabile Claudio Baglioni, per il suo secondo anno consecutivo al timone del grande carrozzone di voler riportare in primo piano il genere canzone (certo declinato in tutte

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