Alberto Piastrellini

Lavanda: il profumo del relax e della memoria

I mille volti di un genere vegetale da sempre utilizzato per le virtù benefiche delle sue sostanze caratterizzanti; dal corpo alla casa, sino alla pittura. Di Alberto Piastrellini Pochi profumi al mondo hanno il pregio di aver accompagnato l’esistenza quotidiana di generazioni intere di persone in territori vastissimi e geograficamente lontani. Certo, le resine vegetali e i vari tipi di incenso usati in varie cerimonie, non solo quelle religiose, ne hanno decretato la diffusione globale, ma fra i tanti doni preziosi che la Natura ci offre dal punto di vista delle sensazioni olfattive, la Lavanda, rappresenta il profumo per eccellenza.Da sempre è sinonimo di pulizia, benessere, pace interiore e per le sue innumerevoli virtù che vanno ben al di là del semplice aroma viene utilizzata per varie preparazioni, anche gastronomiche: sciroppi, dolcibiscotti, gelati, ecc.. Senza contare che la lavanda (o meglio il suo prezioso olio essenziale) viene ampiamente utilizzato, non solo nella cosmetica (shampoo, bagnischiuma, creme, tonici per il viso, acque di profumo) ma anche nell’industria chimica dei prodotti per l’igiene della casa. Le qualità della lavanda, poi, non si fermano qui, infatti, l’olio di lavanda è anche un apprezzato diluente per colori ad olio usati nelle belle arti, ove oltre al suo caratteristico e gradevole odore conferisce ai colori un impasto morbido che deriva dalla sua volatilità molto lenta. Andiamo a conoscere meglio questa pianta, o meglio questo genere di piante (Lavandula) cui appartengono numerose specie. Innanzi tutto, il nome: fissato nel ‘700 da Carl Nilsson Linnaeus medico, botanico, naturalista e accademico svedese, a cui si deve la paternità della moderna classificazione scientifica degli organismi viventi. Linneo adotta quello suggerito anni prima dal botanico francese Joseph Pitton de Tournefort che, a sua volta si era ispirato al gerundivo latino del verbo lavare: lavandus, lavanda, lavandum che designa ciò che

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Bonsai: connubio gentile tra Natura e Arte

Piccoli capolavori di scultura vegetale la cui cura e contemplazione inducono all’armonia interiore. Di Alberto Piastrellini Osservare un bonsai è sempre un’esperienza che tocca corde nascoste nel profondo dell’animo. Quel piccolo abete, quell’acero fronzuto, quella quercia contorta e vecchissima sembrano un fotogramma in campo lunghissimo di un fantastico bosco ideale dove gli alberi hanno una forma precisa e rispondono a determinate associazioni di idee. Poi ci si avvicina e si scopre la magia delle proporzioni complessive che creano quell’illusione: il reticolo della corteccia, la forma coerente del tronco, le foglie in miniatura, minuscole “colline” di muschio che incorniciano la base della pianta in un paesaggio sereno e severo al tempo stesso ove, ugualmente, la forma armonica del vaso contribuisce a costituire un frammento di realtà che parla del tutto. L’arte di far crescere le essenze arboree in piccoli vasi, ingrossando il tronco ed “educando” i rami per conformarli ad un disegno complessivo che risponde a canoni estetici precisi si è sviluppata in Giappone a partire dal VI Secolo, allorquando studenti e diplomatici del Sol Levante tornarono dalla Cina della dinastia Tang con vasi contenenti “giardini in miniatura” chiamati penjing. Nei secoli successivi l’approccio filosofico Zen favorì, come in molti altri aspetti della vita e delle attività quotidiane, il fiorire di una disciplina ibrida, in questo caso connubio fra botanica, giardinaggio e scultura volta a produrre “piante in ciotola”: bonsai, infatti, è il termine nato dall’unione dei caratteri bon (ciotola) e sai (piantare), con l’obiettivo di riprodurre in casa, per il proprio e l’altrui godimento, un’opera vivente in grado di suggerire sensazioni quali solo le grandi manifestazioni della natura possono evocare. La forza di una conifera abbarbicata alla roccia della montagna piegata negli anni dal vento impetuoso, oppure la contorta maturità di un albero secolare o, perché no, l’assurda perseveranza della

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Donna InCanto: Carmen, la seduzione sfrontata e ribelle

Esotismo ed erotismo nella figura della zingara ribelle che da 144 anni accende le fantasie del pubblico del mondo. Di Alberto Piastrellini “Quand je vous aimerai? Ma foi, je ne sais pas. Peut-être jamais, peut-être demain. Mais pas aujourd’hui, c’est certain!” (Traduzione: “Quando vi amerò? In fede mia non so. Può essere, mai; può essere domani. Ma non oggi, è sicuro!”) L’entrata in scena di Carmen, a metà del primo atto dell’Opera omonima di George Bizet è qualcosa di sconvolgente nella sua sfrontata esuberanza giovanile e popolare al tempo stesso; sapientemente e teatralmente ritardata da due scene dove l’atmosfera accaldata del pomeriggio sivigliano si colora dell’attesa spasmodica di gruppi maschili diversi bramanti l’arrivo delle donne. Non già le figurine putibonde in guanti di pizzo e ombrellino o le ingenue contadinelle che affollano la piazza, buone, se mai, per metter su famiglia o per scimmiottare qualche conquista galante, ma le ruvide, provocanti, scosciate e sguaiate sigaraie la cui anima seduttrice e perversa è Carmen, sex symbol ante litteram che accende le fantasie borghesi con un portato di sensualità fisica e verbale amplificato da una partitura orchestrale accesa e violenta, evocatrice e ammaliatrice. Scopriamo insieme questo personaggio che dal 1875 costituisce un archetipo dell’opera lirica e della femminilità. Prima ancora che sulle scene, Carmen vede la luce nella novella omonima pubblicata nel 1845 da Prosper Mérimée: un torbido quadretto in quattro parti che adombra relazioni adulterine e crimini passionali nel contesto di una Spagna accesa dal fuoco dei sensi. Un soggetto di per sé già scandaloso che però, aveva tutte le caratteristiche – adeguatamente sfrondato delle parti più “forti” – per intrattenere il pubblico di famiglie del Théâtre national de l’Opéra-Comique di Parigi che, nel 1873 aveva commissionato a George Bizet l’incarico di trarne un’opera. Il musicista e i librettisti Henri Meilhac

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Incenso: il profumo della Terra che parla al Cielo

Un viaggio tra aromi, Paesi e culture scritto su un’esile filo di fumo Di Alberto Piastrellini Un sottile filo di fumo azzurrino sale verso il soffitto e spande intorno un aroma sensuale che sa d’Oriente e di magia. È l’incenso, prodotto di origine naturale che da sempre accompagna i momenti fondamentali della vita dall’Africa, all’Europa, dal vicino Oriente all’estremità dell’Asia intessendo un continuo dialogo tra religioni, riti, filosofie e semplice quotidianità. Un dono della Natura che, oltre alle note proprietà aromatiche per il quale è universalmente conosciuto, nasconde anche caratteristiche interessanti dal punto di vista della salute e del benessere. Cerchiamo di scoprirle insieme in un viaggio da Mille e Una Notte. Il nome incenso designa genericamente tutta una serie di oleoresine secrete da piante del genere Boswellia. La Boswellia sacra, tipica dell’Oman meridionale (Dhofar) produce a partire dai 10 anni di età la resina lattescente che, fatta stillare mediante incisioni del tronco e lasciata asciugare al sole forma dei cristalli dorati ed ambrati di incenso. La raccolta, per non stressare troppo la pianta, avviene nel periodo aprile-ottobre e si effettua per non più di quattro volte l’anno. L’incenso dell’Oman è storicamente il più noto e il più costoso data l’alta qualità delle sue caratteristiche. In Arabia, Yemen ed Oman, l’uso dell’incenso non è legato alle pratiche liturgiche, ma viene usato quotidianamente come purificante degli ambienti domestici, per allontanare gli insetti fastidiosi per profumare vestiti e capelli. Inoltre, la farmacopea tradizionale gli attribuisce proprietà interessanti nel combattere le affezioni dell’apparato respiratorio (espettorante, anticatarrale e antisettico) mentre il suo olio essenziale viene distillato per la preparazione di profumi a base oleosa e per rimedi della pelle (cicatrizzanti ed astringenti). Come semplice fonte di aroma naturale, il profumo dell’incenso induce un piacevole relax predisponendo la mente alla riflessione e alla meditazione (non

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Gentil sesso e dolci tentazioni

Alla scoperta di un cliché alimentare tra bisogno fisiologico, ricerca del benessere e attrazione fatale. Di Alberto Piastrellini “Io sono innamorato di tutte le signore che mangiano le paste nelle confetterie” I versi che aprono e chiudono questa divertente poesia di Guido Gozzano (Torino, 19 dicembre 1883 – Torino, 9 agosto 1916) pur riferendosi ad un mondo scomparso di prurigini e pudori celati sotto velette e crinoline all’apice della Belle Epoque, illustra benissimo il rapporto quasi carnale che lega indissolubilmente l’universo femminile alla pasticceria, tanto quella consumata, quanto quella prodotta in casa. L’immagine della mamma che prepara una torta; della nonnina che sforna i biscotti; così come delle amiche che si ritrovano per un tè con annessa dovizia di golosità proprio perché luogo comune è divenuta iconica ed abusata anche oggi quando le occasioni, per molte, di mettersi in cucina è diventato un lusso (in termini di disponibilità di tempo), oppure un’ostentazione modaiola con annessa gara alla cerca del robot più performante. La stessa idea di festa e di abbondanza sottese alla produzione di un dolce fatto in casa, retaggio di un tempo in cui, per molti, la piramide alimentare si fermava alla base, è oggi abbondantemente superata dalla disponibilità illimitata di fonti di zuccheri semplici e complessi e dallo sperpero che, almeno in Occidente si fa di prodotti dolciari industriali e non. Eppure, c’è una complessa serie di ragioni per le quali femminilità e dolci vanno a braccetto. Cerchiamo di scoprirne qualcuna. La soglia di percezione del dolce è la più alta rispetto a quella degli altri gusti (amaro, aspro, salato, umami) e sembra che la sensibilità verso gli zuccheri in generale sia piuttosto antica in termini evoluzionistici, non è un caso che i neonati preferiscono soluzioni che presentano una concentrazione più alta di lattosio, lo zucchero già presente

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Quando la bellezza diventa ossessione

Trucco e cosmetici per talune diventano una ragione di vita che sfiora la patologia Di Alberto Piastrellini Viviamo in un’epoca che ha fatto della bellezza fisica il fine ultimo dell’esistenza. La bellezza è l’obiettivo base da raggiungere per poi spiccare il volo sulle ali del successo; da quello semplicemente virtuale dei social a quello legato al lavoro e alla realizzazione di sé. Ma quando la ricerca estenuante e continua di perfezione diventa ossessione allora nascono i problemi e quello che un tempo era un innocente atto di vanità e di compiacimento si trasforma in un mostro capace di togliere energia, rubare tempo, causare depressione, impoverire le proprie tasche, sino alle estreme conseguenze che portano alla compulsiva ricerca di ritocchi e modifiche al proprio corpo anche a discapito della salute e dell’equilibrio psicofisico. Difficile stabilire una causa, ma certamente l’immagine dominante della donna nella comunicazione pubblicitaria, sempre più pervasiva e sganciata dai media tradizionali – avendo ormai conquistato le infinite opportunità della Rete – gioca un ruolo fondamentale sin dalla più tenera età, considerando la facilità di accesso ai vari device. Malgrado a parole, infatti, molte donne di ogni età tendono a deprecare ed irridere stereotipi ed immagini artefatte, nel quotidiano, per seguire un’idea trendy, finiscono per adottare quegli stessi comportamenti in termini di look, hair-style, colori e make-up. Ma dalla perfezione (artificiosa) di una foto alla realtà, ce ne corre, di qui la necessità, sempre più impellente e diffusa di ricorrere ad ulteriori accorgimenti cosmetici per nascondere piccole imperfezioni, esaltare forme, ristrutturare un’idea di volto, mascherare, sacrificando, infine, la propria identità sull’altare di una dea capricciosa e volitiva chiamata Moda. Produttori di cosmetici e accessori affini dedicati hanno mangiato la foglia da tempo intravedendo un business illimitato ed un target molto ampio per età e genere. I dati nel solo

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Le cinquantenni? Invisibili!

Qualche riflessione sulle dichiarazioni dello scrittore francese Yann Moix e la sua visione dell’amore A cura di Alberto Piastrelli e Eleonora Giovannini L’apodittica dichiarazione dello scrittore e regista francese Yann Moix, volto noto della TV ed apprezzato editorialista, vincitore nel 1996 del Premio letterario Goncourt, ha scatenato, com’era prevedibile, un vespaio di polemiche dal quale Donna di Fiori non si sottrae preferendo però, cogliere l’opportunità della notizia per una riflessione meno urlata di quanto accaduto sui media e sui social media nei giorni precedenti “Preferisco il corpo delle donne più giovani, semplicemente” – ha dichiarato su Marie Claire il neanche tanto giovanissimo autore, dal momento che pure lui ha appena superato i fatidici 50, rincarando la dose con un più esplicito “Il corpo di una donna di 25 anni è straordinario. Il corpo di una donna di 50 non lo è affatto”. Ma guarda un po’; il pupillo del filosofo Bernard Henry-Levy ha scoperto l’acqua calda: si invecchia! E se all’aitante commentatore non piacciono le donne mature che per lui sono “invisibili” (e neppure le europee dal momento che ha anche espresso le sue preferenze per le donne asiatiche in generale “coreane, cinesi e giapponesi”), cercheremo di farcene una ragione, magari compatendolo per quello che si perde (perché al netto di palestra, botox e ritocchini vari di splendide cinquantenni è pieno il mondo) e facendogli, al contempo, gli auguri per il suo nuovo romanzo “Rompre” che, guarda caso, è incentrato su un episodio autobiografico relativo ad una relazione andata male che, evidentemente, ha lasciato un certo segno. “Amo chi voglio e non devo certo presentarmi al tribunale del gusto”, ha troncato lo scrittore e per carità, per dirla alla francese, “chacun à son goût”, tuttavia non si può non ravvisare nella personale intemerata del personaggio una certa ambiguità nell’approccio a

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Scopriamo il Tè, bevanda gentile che ha conquistato il mondo

Di Alberto Piastrellini Dalla Cina del III Sec. alla diffusione globale, breve storia di un infuso che ha condizionato non solo le abitudini domestiche, ma anche il mercato e la creatività. La casa lasciata in penombra in un silente pomeriggio d’inverno; l’unica luce è quella della lampada da lettura che rischiara la poltrona preferita, sul tavolinetto, accanto al libro, una tazza di tè espande il suo vapore aromatico… Per molti è il momento di relax assoluto, magari vagheggiato lungo intere giornate di lavoro convulso; per tanti altri, nelle sue molteplici varianti, il piacere di una tazza di Tè diventa occasione per condividere insieme chiacchiere e golosità, come pure un istante di pausa nel rotolare delle ore. Fatto sta che il Tè in poco più di tre secoli ha conquistato il gusto dell’umanità finendo per diventare, oggi, la bevanda più consumata al mondo dopo l’acqua pura. Cerchiamo di ripercorrere insieme il cammino di questo semplice infuso dal suo esordio semi leggendario nell’antica Cina ai fasti del XVIII e del XIX e Secolo rivelando pure che proprio il Tè è stato protagonista nella nascita della nazione americana! La leggenda del Tè Un popolare racconto cinese fa risalire la scoperta del Tè ad un antichissimo imperatore del passato il quale sostando a meditare sotto una pianta, si addormentò col paiolo dell’acqua a bollire sul fuoco accanto. Una provvida brezza fece volare alcune foglie dalla pianta nell’acqua e, al suo risveglio, l’imperatore volle provare quella bevanda dall’intenso e soave profumo: era nato il Tè! In effetti i primi riscontri documentali sull’uso del Tè in Cina ci arrivano direttamente dal III Sec. d. C. allorquando l’infuso è utilizzato dai monaci nelle lunghe sessioni di meditazione. Nei secoli successivi il consumo di Tè come bevanda nobile e medicamentosa si allarga alle classi agiate di Cina e

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Calligrafia: l’arte della bella scrittura che fa bene alla mente e all’anima

Alla scoperta dei benefici psicofisici dell’esercizio della scrittura a mano; per recuperare il senso del bello e della manualità nella comunicazione. In un’epoca che ha fatto della digitazione la principale attività motoria e nella quale il rapporto primario con la scrittura a mano è quasi relegato alla sola attività scolastica, parlare di calligrafia sembra anacronistico e totalmente al di fuori della realtà. Ma è veramente così? La parola che definisce la “bella scrittura” (dall’unione dei termini greci antichi καλòς – calòs “bello” e γραφία – graphìa “scrittura”) ha un sapore antico e, per taluni, quasi amaro e nostalgico; ricordi di vecchi racconti di una scuola fredda dove alunni intirizziti riempivano pagine di asticelle cerchietti ed uncini in attesa del severo giudizio del Maestro di turno pronto alla lode e altrettanto lesto alla bacchettata. Già, perché, sino alla diffusione della “macchina da scrivere”, prima, e dei programmi di videoscrittura per PC, poi, avere una bella grafia era prima di tutto un vanto personale oltre che un ottimo biglietto da visita per professioni impiegatizie. Tuttavia, si sa, il passato, almeno in certe forme, tende a ritornare ed allora ecco che il piacere lasciare sul foglio tratti squisiti – oltre che estremamente leggibili – è tornato ad essere elemento distintivo, originale e, perché no, frutto di grande piacere personale. Da qualche anno (ma Associazioni e Circoli culturali nel mondo hanno sempre mantenuto verde la pianta della calligrafia), si assiste ad un revival nella pratica calligrafica; si pubblicano libri e manuali, si moltiplicano i corsi ed i laboratori; occasioni speciali ed eventi sociali richiedono ed investono nella scelta charmante di un prodotto distintivo e di qualità come un invito, una partecipazione, una locandina scritti a mano. Nelle Marche, fra le colline di Recanati (MC) è persino attivo un moderno Scriptorium – Laboratorio di Scrittura

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SUBACQUEA RICREATIVA: PIÙ GIOCO CHE SPORT PER VIVERE IL MARE

Curiosità, consapevolezza, sicurezza aprono le porte di un mondo meraviglioso all portata di tutti. Di Alberto Piastrellini La Creatura, una massa di materia vivente rosa shocking coperta di appendici e tozzi tentacoli, si muove lentamente strisciando sulla roccia coperta di concrezioni gialle, arancioni e viola… Nel frattempo lei sperimenta la sensazione di libertà assoluta data dall’assenza di peso; lui, il senso dell’udito amplificato. La loro vista si perde a scoprire colori mai visti che si accendono al passare della fonte di luce portatile… Il brivido dell’ignoto, il richiamo dell’abisso e l’abbraccio di una dimensione neanche tanto aliena che li riaccoglie in sé dopo una separazione di milioni di anni. Non è la fantasia di un viaggio interstellare ancora di là da venire, né il sogno lisergico di qualche poeta maledetto, è l’esperienza di rivelazione che porta con sé i primi “passi” nella subacquea ricreativa con autorespiratore (nello specifico, l’incontro con un nudibranco Flabellina affinis, spettacolare rappresentante di quei molluschi senza conchiglia veri e propri “gioielli del mare”). Un’attività alla portata di tutti e di tutte le età che si può provare con un minimo di preparazione fisica (sappiate che in palestra si fatica molto, ma molto di più), un piccolo investimento in termini di tempo (le attrezzature specifiche verranno poi, all’inizio si possono anche affittare) e una buona dose di curiosità e di voglia di mettersi in gioco. Le possibilità sono tante e variamente distribuite sul territorio nazionale: Scuole, Diving, Piscine attrezzate, Associazioni sportive e istruttori, si trovano un po’ dappertutto, non solo in località di mare; il web in questo senso è un ottimo punto di partenza per valutare dove iniziare e quale didattica seguire. Perché se immergersi con autorespiratore è un’attività bellissima, appagante ed emozionante, è pur vero che qualche regola teorica e pratica bisogna conoscerla, e conoscerla

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