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Fede sarda amore e tradizione in un unico oggetto fatato

di Benedetta Giovannetti La fede sarda è un tipo di anello femminile solitamente donato dal futuro sposo in occasione della richiesta formale di matrimonio ma spesso anche in occasioni speciali quali la nascita di un figlio. È un gioiello tipico della Sardegna ma si sta diffondendo anche fuori dai confini dell’isola, grazie al fascino che esercita sui turisti. La sua lavorazione unica le conferisce quell’aspetto così particolare e affascinante, infatti la fede sarda è un gioiello forgiato in 4 o più fili d’oro o d’argento filigranato, intessuti per creare decorazioni uniche su cui vendono microsaldate file di palline del diametro di 0,1 millimetro cesellate e saldate tra loro a cui sono affiancate altre palline più piccole. Tali palline pare facciano riferimento al germoglio del grano e che per questo rappresentino un augurio di fertilità. Di solito l’anello non è chiuso ma rimane aperto nel lato del dito verso il palmo della mano. Più spesso però accadeva che l’anello era l’eredità di una madre alla figlia promessa sposa o in dolce attesa, era considerato un sigillo alla pari del cartiglio dei faraoni egizi, un segreto tramandato da generazioni attraverso i secoli. La fede sarda ha una narrazione che si perde nella notte dei tempi e che pare le nonne raccontino alle nipoti sedute davanti al camino. Pare che la Sardegna sia abitata da alcune fatine magiche; le Janas, minuscole fatine elusive, giocherellone e con il dono della creatività. Infatti pare fossero bravissime a tessere filamenti di oro e di argento. Pare che proprio dalle loro mani nasca l’antica trama della fedina sarda. Una seconda leggenda narra che un innamorato chiese alla Janas incantesimo che lo aiutasse a conquistare la donna amata, tale desiderio fu esaudito con la creazione di un anello, la fede sarda, che se infilato all’anulare sinistro avrebbe ravvivato

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La leggerezza sotto forma di personaggio: la regina Mab

Shakespeare ha scritto di gelosia appassionata, di sete insaziabile di potere, di sangue e morte, di faide familiari e di vendette terribili, ma sapeva anche “assottigliare” la sua scrittura fino al punto di descrivere la grazia e la delicatezza di una fata. di Anna Rita Rossi Le tragedie del bardo sono note a tutti: forti passioni agitano i suoi personaggi che spesso sembrano essere trascinati da un inesorabile destino.Ma all’interno delle sue tragedie e nelle commedie trovano spazio figure che alleggeriscono la narrazione e sembrano alleviare il pesante fardello che la sua “umanità letteraria” deve costantemente sopportare. Tra queste creature leggiadre, una figura che mi ha sempre affascinato è quella della regina Mab (una fata che compare anche in altre opere della letteratura del XVII secolo) che Shakespeare nomina nel suo dramma Romeo e Giulietta (atto I Scena IV) attraverso le parole di Mercuzio, amico di Romeo e un vero acrobata delle conversazioni; un personaggio dalla lingua sciolta e dallo spirito pronto che anima i suoi discorsi con punte di cinismo, qualche nota osé e un’arguzia sottile. La capacità del narratore di rendere la natura sostanziale di una fata è davvero mirabile.Inizia descrivendo le dimensioni infinitesimali della creatura: in forma non più grossa di un agata all’indice di un anziano e in grado di sostare sul naso di qualcuno mentre è addormentato.A questo punto, la fantasia prende la briglia al narratore che si profonde in una serie di metafore per descrivere la leggerezza di questo personaggio che si avvale di un suo corteo fatto di atomi e di un esclusivo e minuto cocchiere: un moscerino in livrea grigia. Persino la sua carrozza è un’opera di alta ingegneria, un gioiello di minuzie prive di peso e di spessore: i raggi delle ruote del suo carro son fatti di esili zampe di

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